11 settembre 2011

A Ground Zero come da Saddam

All’ultimo posto di controllo un poliziotto ci lascia passare con un sorriso che ammicca alla telecamera. “Italiani, eh?”, esclama come inseguendo origini lontane. Pochi metri più in là, un agente con un’altra divisa ci sbarra la strada brandendo il mitra M16 di traverso. Ma, come? Il suo collega ci ha autorizzati. “Lui non conta, è uno statale, io sono federale. Sono io che decido. Avete il passi? No? Tornate indietro! Non è una conversazione. Andate via e basta.” Inutile spiegargli che siamo diretti proprio alla grande centrale di polizia, a One Police Plaza, non distante dall’area del cratere, per ritirare gli accrediti, i lasciapassare del NY Police Department senza i quali non si va da nessuna parte, non si può esercitare il diritto di informazione garantito dal Primo emendamento.

Situazione paradossale. Se non avete i permessi, non potete andare a farvi consegnare i permessi. Inutile discutere, inutile invocare la flessibilità. Questo paese vive e muore di procedure. L’agente federale che ci ferma non cambierebbe idea neppure se sapesse che, proprio in ossequio alle procedure, tra sei mesi l’autorità per l’immigrazione rilascerà regolari permessi di soggiorno ad alcuni dei defunti attentatori kamikaze dell’11 settembre, andandoli a cercare addirittura nella scuola di volo dove si erano addestrati per colpire le Torri gemelle…

Frosten area, la zona congelata, così l’hanno definita ufficialmente le autorità. Dalle 8.48 dell’11 settembre e a tempo indeterminato, tutto sospeso, diritti civili e costituzionali inclusi, dentro l’ampio triangolo del distretto finanziario attorno al Worl Trade Center, dove si vive in piena emergenza, con misure di sicurezza da tempo di guerra. Attraverso i check-point, presidiati da Guardia Nazionale, ranger e ogni genere di militari, entrano solo camion e mezzi di soccorso. I blindati e le grandi jeep in colore mimetico danno l’atmosfera da stato d’assedio. Tutto ricorda le retrovie animate della Guerra del Golfo, in Arabia Saudita. E il trattamento per l’informazione, soprattutto per le tv, è lo stesso.

Fu allora che gli Stati Uniti, a capo della coalizione internazionale anti-Saddam, misero a punto un nuovo, efficacissimo sistema di censura, basato sulla gestione delle routine produttive. In sostanza, attraverso la diffusione controllata delle informazioni e, soprattutto, distribuendo immagini uguali per tutti, dando ad ognuno la possibilità di confezionare i propri prodotti secondo i migliori standard della produzione televisiva ormai consolidati, gli americani imbrigliarono gli organi di stampa del mondo intero, si misero al riparo da un indesiderato “effetto Vietnam”. Confinati in centinaia nei grandi alberghi di Daharan, la retrovia della grande coalizione militare verso la frontiera Kuwaitiana, inutilmente protestavamo ogni giorno che non volevamo “rimasticare la gomma già masticata da altri”.

Lo strumento per vincolarci a quella censura era proprio l’autorizzazione, la press-card, il cartellino girocollo con i dati di identificazione, rilasciato solo dopo la firma per accettazione delle regole del gioco: cosa si può e cosa non si può fare. In primo luogo, vietato andare in qualsiasi posto senza nulla osta e scorta. E, tranne al mercato dei cammelli o in qualche base a vedere le esercitazioni, non si riusciva ad andare. Ovviamente, per tutelare l’incolumità personale del giornalista, ci spiegavano i militari. Insomma, una sorta di non-lascia-passare che, in caso di trasgressione, era sequestrato con conseguente rimpatrio immediato.

“Ma in Vietnam ci portavate sugli elicotteri”, ripeteva Oriana Fallaci agli ufficiali americani del servizio stampa che neppure rispondevano più. Inutile consolarla, quando si informava ostinatamente su come raggiungere il confine, su dove fosse la via di fuga per arrivare in prima linea.  E, tutto questo, mentre davanti ai teleschermi di tutto il mondo gli spettatori vivevano per la prima volta l’illusione di una guerra raccontata in diretta, con le immagini e le informazioni fornite dal Pentagono. [1]

Allora, per vedere e raccontare, imparammo a fuggire nel deserto, verso la frontiera con l’Iraq, imbattendoci nella macchina da guerra alleata, trascorrendo le notti con i beduini o i Desert rats britannici. Qualcuno cadde in mano irachena. Questa volta la trasgressione è più semplice. Nella metropolitana che ci porta da Canal Street a Fulton Street, a cento metri da Ground Zero, non esistono controlli o check point. Quando usciamo per la prima volta nell’epicentro della tragedia, in un caos di polvere e soccorritori, temiamo ad ogni passo di essere buttati fuori in malo modo. La tensione è altissima. Ma, per giorni nessuno ostacola il nostro lavoro.

[1] Un trucco in cui, solo otto anni più tardi, non caddero i pubblici nel frattempo maturati, quando la storia stava per ripetersi alla Guerra del Kosovo. In quel caso a gestire l’informazione erano, però, gli europei che dimostrarono un equilibrio e una flessibilità maggiori, nonostante le immancabili contraddizioni tra i vari livelli in ambito Nato.


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