Ground Zero

Dal nostro inviato per tre mesi a Ground Zero

Camminare e poi correre. In pochi istanti, ascoltando al cellulare la voce del collega che chiama da New York alle 8.52 americane, le 14.52 ora di Saxa Rubra, il mega centro Rai dell’informazione alle porte di Roma, filo spinato e telecamere di sorveglianza, dove ho appena superato i “tornelli” di ingresso, strisciato il tesserino come in fabbrica per una normale giornata di produzione di tg, nella consueta catena di montaggio.

Camminare, correre, andare, vedere, raccontare. Poche notizie, ormai, riaccendono questo meccanismo adrenalinico, da quando tutto sembra accadere in una specie di circo equestre dell’informazione, con una solida rete mediatica di sicurezza pronta a salvare il giornalista-trapezista, a portargli tutto sul tavolo. E, questa volta è addirittura un tam tam incredulo, confuso, che rimbalza da pochi metri dal World Trade Center. Chi chiama ha, a sua volta, appena ricevuto la notizia da una collaboratrice che abita in fondo a Soho, che ha visto dalla finestra di casa un’esplosione, la colonna di fumo.

“C’è un aereo, pare da turismo, che qualche minuto fa si è andato a ficcare in una delle torri gemelle. Non dovrebbe essere nulla di grave, ma…” Il collega di New York cerca di attenuare, quasi di sminuire ciò che dice. Nella prima mattinata americana, può essere confuso per il desiderio che nulla venga a turbare il ritmo rituale della giornata del corrispondente. Ma, in realtà, la frase tradisce l’imbarazzo, l’emozione di giornalista anziano che sente la consueta ponderatezza, l’abitudine a verificare prima di lanciare l’allarme, travolte dalle dimensioni della notizia. Prima ancora di capire di cosa si tratti davvero, la spinta è a comunicare, rendere partecipi gli altri, trovare in questo scambio la misura di quanto sta accadendo.

Correre decisamente verso la stanza del direttore, con la voglia di arrivare in onda nel più breve tempo possibile, passando davanti alle redazioni, dove qualcuno è già sintonizzato incredulo davanti alla Cnn, le cui telecamere riprendono da lontano la tragedia, come una scena irreale. Un aereo in un grattacielo di 110 piani. Un incidente inaudito. Ma, basta per interrompere le trasmissioni qui in Italia? Quante vittime, se ne ha già un’idea?

Di fronte a un fatto così enorme, sembra una follia scorrere i soliti parametri con cui si pesano le notizie: distanza, numero di morti, italiani o personaggi coinvolti, danni. Serve a frenare per un istante l’emozione. A giudicare con occhio distaccato. Sostenere con qualche parametro oggettivo la spinta istintiva a entrare in milioni di case, fermare la vita di tutti per raccontare che sta accadendo qualcosa che sembra dover segnare la vita di tutti. L’intuito delle dimensioni della storia, temperato dalla responsabilità di non dover cadere in allarmismi. [1]

A frenare la decisione immediata di andare in onda con una “breaking news”, “edizione straordinaria”, questa volta è il dubbio che si possa trattare solo di un incidente. L’attesa dura appena una manciata di minuti, ma è ugualmente una tortura. A togliere ogni remora, alle 15.03, le 9.03 americane, il secondo aereo che entra nell’altra torre. “Allora, non può che esser un attentato”, esclama impietrito un collega. Per arrivare in onda, però, c’è da attendere ancora lunghi secondi. E’ la burocrazia delle grandi organizzazioni.

Per interrompere il telefilm in onda non basta premere un pulsante. C’è una catena di competenze da rispettare. Con l’ansia, già seduto davanti alla telecamera, con un capocronista anziano che continua a portare agenzie di poche righe, in silenzio, come in un rito che conosce bene: attentati, colpi di stato, guerre. Ma un attacco al cuore degli Stati Uniti, dal 1812 nessuno lo ha potuto raccontare. Mai la tv. Le torri in fumo, enormi sul grande schermo alla sinistra del tavolo di conduzione del Tg2. Alle 15.14, le 9.14 di New York, la corsa per arrivare in onda è conclusa. Con 19 secondi di ritardo sulla concorrenza. Ma non è certo questo a provocare l’insoddisfazione.

La diretta scivola via come un atto dovuto d’informazione, con la calma e la lucidità a sorvegliare la forte emozione. La spinta a camminare, e poi a correre, non si ferma. Raggiunta la prima destinazione, gli spettatori, nel più breve tempo possibile, scatta l’impulso verso la seconda destinazione, il cratere, il posto dove la storia è in corso, la voglia di vedere e raccontare, la stessa ansia dei soccorritori, di voler essere lì. In primo luogo, di uscire da questa macchina poderosa ma terribile che è la tv moderna, che digerisce qualsiasi notizia, consentendo di raccontare a distanza cose che non si vedranno mai.

La spinta si imbatte per due giorni contro la partenza impossibile. Aeroporti chiusi, frontiere chiuse, stato di guerra. Negli Stati Uniti non si entra. Il 13 settembre, finalmente l’aereo decolla. Ma, su Barcellona vira e torna a Roma. L’Oceano da saltare è diventato una barriera come ai tempi delle Colonne d’Ercole. E’ il primo, incredibile effetto degli attentati. La comunicazione globale è paralizzata.

Il giorno dopo, quando atterro a Detroit, mi sequestrano un piccolo taglia unghie. “Questo oggetto è illegale”, afferma con voce stanca ma solenne l’addetta al metal detector, prima di imbarcarmi sul primo volo che riparte per New York. “Abbia pazienza, signore, siamo un paese in guerra”.

Mio padre, che fa il pubblicitario dagli Anni Quaranta, tira in ballo Orson Welles e la sua “Guerra dei Mondi”, il radiodramma del 1938 costruito come una finta radiocronaca in diretta di un’invasione dei marziani aperta proprio da una meteora luminescente che piomba dal cielo in California [2].

Milioni di americani credettero fosse realtà, nonostante i chiari annunci all’interno del programma, e si tapparono in casa o si misero in fuga con famiglie e masserizie. Frutto di quella dilatazione parossistica del conflitto tra il bene e il male che sembra posto a fondamento stesso degli Stati Uniti.

La proporzione è la stessa. Che strumenti avevano per non credere alle proprie orecchie i radioascoltatori della comunicazione di massa nata allora da pochi anni? E questa volta, che l’attacco dal cielo è realtà, quali strumenti hanno gli spettatori di un mondo tutto televisivo, per percepire i veri confini di quella realtà? La reazione del Paese rassomiglia davvero a quella provocata da Orson Welles.

NOTE

[1]  In altri casi è stato eccessivo il muro di prudenza scattato davanti a grandi eventi. “Quante vittime”, chiese un responsabile di edizione alla proposta di andare in diretta con la notizia del palazzo governativo saltato in aria pochi minuti prima a Oklahoma City. Era troppo presto per conoscere il numero dei morti. Ma, ce n’era bisogno? Nell’istantaneità della tv moderna si poteva già essere in onda con le immagini e le conseguenze della tragedia erano enormi, a prescindere dal conto finale delle vittime. Quando il premier israeliano Rabin fu colpito durante una manifestazione a Tel Aviv, mancavano pochi istanti al tg di mezza sera. La mia testata era l’unica ad avere un inviato sul posto, pronto ad entrare in diretta via telefono. “Perché, è forse morto?”, mi rispose gelido il coordinatore giornalistico. E ritardò la notizia per verificare se il premier israeliano fosse solo ferito o già deceduto. A Nashville, durante le presidenziali americane del 2000, quando mi resi conto che il candidato Al Gore non riconosceva il vantaggio di Bush, faticai venti minuti interminabili per intervenire in diretta nella trasmissione che stava già celebrando la vittoria di Bush, la cui conferma arrivò invece oltre un mese più tardi.

[2] Orson Welles lo aveva tratto dal romanzo pubblicato da H.G.Wells nel 1898.


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