Divorziata a Teheran

Divorziata a Teheran

…la casa dove mi hanno portato è in un quartiere carino che non saprei localizzare nel ginepraio dei 12 milioni di abitanti di Teheran, comunque in qualche punto della zona Nord. È che proprio non volevo perdermi una festa fra amici artisti, vista da dietro le quinte, dove può accadere di tutto, mentre a tre metri fuori la strada, il velo, se cade, è una rivoluzione. Anzi, una contro-rivoluzione islamica.

Direi tre metri sopra al cielo, perché, superato il muro di cinta con i fiori lilla che pendono profumati, varcato il portone che poteva essere di una strada in salita, tipo quelle che si arrampicano attorno a via Archimede a Roma o a via Stazio a Napoli, anziché salire, siamo scesi al piano interrato.
Ho salutato più persone come se fossero il padrone di casa. A uno gli ho anche ammollato i fiori belli, olandesi gialli e lilla, presi a venti euro (un mezzo stipendio qui). La gente mi è subito diventata familiare.

Trentenni, più uomini che donne, tutti molto piacevoli, ognuno con una stranezza ostentata in modo misurato, buona musica e tante altre cose che non sto qui a dire. Ma, per capirci, quando hanno scoperto che sono l’unico italiano astemio, che non mangia maiale e non beve caffè, un altro po’ svenivano.

Due fotografi (al muro loro opere bellissime, a base di donne, manco a dirlo), una pittrice, il traduttore ufficiale di Foucault, una scrittrice, una che disegna sui vestiti…
Ecco, proprio lei. Ha cercato più volte di offrirmi qualcosa che non fosse la Sprite che mi ostinavo a bere, e che loro adoperavano come soda…

Ho cominciato a parlarle per fermare quel suo cercare di farmi mangiare pizza, carne secca, simil salame e finto prosciutto, formaggio, peperoni, sformato di melanzane…

Mi ha detto quasi subito che era divorziata da pochi giorni, dopo due anni di tentativi e di tira e molla, che non ce la faceva più (qui è un altro sport nazionale quello del divorzio). Poi, la disegnatrice di vestiti, pienotta ed aggraziata, uno e settanta e begli occhi, è andata avanti a raccontarmi di un suo amorazzo italiano, un sardo che proprio le aveva stravolto la vita. E che lei si era innamorata da pazzi, e lui non le aveva mai detto di avere moglie e tre figli, finché un giorno è scomparso senza lasciare tracce…

Ma come, mi chiedevo, e sotto quale velo, e in quale ambiente, tutto questo è potuto accadere a Teheran…?

E lei continuava a raccontarmi, nonostante tentassi staccarmi da lei attaccandomi ad altri invitati…
Il tutto sotto il naso di uno che era arrivato per ultimo, quando avevamo già quasi finito cibi e bevande, uno che tutti avevano salutato con calore. Architetto, mi ha spiegato una. Il padrone di casa, mi ha finalmente detto un altro. Uno non troppo allegro, per la verità, ma che ha messo la musica migliore, e tutti hanno cominciato a ballare…

E se ora lo incontrassi, ho chiesto alla disegnatrice di vestiti, intendendo il sardo, lo uccideresti perché ti ha piantata qui? E lo hai poi cercato? possibile che non si sappia dov’è…?

E lei: no, lo amo troppo, ma non voglio trovarlo io, deve essere lui, io gli mando i segnali…
Poi, mi ha guardato con un sorriso, mi ha messo una mano sul polso destro, sul secondo orologio che porto sempre nei paesi con fuso orario diverso dall’Italia, e mi ha detto languida: sai, anche lui portava due orologi…

Frase che non è sfuggita all’architetto-padrone-di-casa che girava silenzioso, con volto neutro, compiendo le operazioni di chi allieta la serata agli ospiti, rispondendo con il solo battere degli occhi a tutti quelli che gli rivolgevano frasi simpatiche e affettuose… Lui ha buttato uno sguardo come se avesse rilevato una traccia…

Ma lei è andata avanti a raccontarmi di quando non ce la fece più a resistere alla passione e dichiarò al sardo che lo amava a perdifiato. In seguito, aveva pensato che proprio per questo motivo poi lui fosse scappato a gambe levate. Certo, non aveva dubbi: lo avrebbe seguito all’estero portandosi dietro il figlio.

Ed io, distrattamente, spinto dal languore per quella follia di lei innamorata di un pataccaro italiano che le aveva insegnato una frase da finto poeta (“Sono del sud e amo il mare e il cielo blu” che lei mi ripeteva con voce ispirata e suoni da risponditore telefonico automatico), mi sono allontanato con una scusa, un po’ intontito nel rendermi conto di essere ancora a Teheran e non a Rimini o Milano Marittima.

È allora che la persona che mi aveva portato lì mi ha incrociato e mi ha detto: stavi parlando con la mia migliore amica…ha divorziato da poco…ti avrà raccontato del suo amore italiano…vieni, ti presento il marito. La ama ancora tanto. È lui, il padrone di casa, fa l’architetto…

(Teheran, in un autunno del 2004)


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