Le finte madri dell’embargo

Le finte madri dell’embargo

La strumentalizzazione del dolore è un errore oppure una tentazione dei media senza scrupoli. Ma è anche un efficace strumento di propaganda, una trappola che i regimi totalitari tendono di frequente all’informazione. Per anni a Baghdad i giornalisti occidentali, in genere sorvegliatissimi e condizionati ad ogni genere di autorizzazione per gli spostamenti, sono stati lasciati liberi di partecipare ai cortei di donne che protestavano contro l’embargo dell’Onu. Migliaia di Mamme con in braccio bambini che avrebbero fatto bene a non muovere dai letti di ospedale. Denutriti, ammalati, con volti emaciati ostentati davanti alle telecamere, gridando “Viva Saddam” e “Usa assassini”.

La prima volta che mi trovai in una manifestazione di questo tipo faticai a credere che si potesse arrivare a tanto: molti dei bimbi avevano necrosi estese agli arti, gambe mangiate dalla cancrena, oppure erano divorati dalle setticemie. Quale mamma avrebbe accettato di strappare il proprio figlio da un posto riparato per sbandierarne il corpicino martoriato in pubblico? Pur nella disperazione dell’assenza di cibo e di medicine, chi avrebbe rischiato di infliggere al proprio bimbo il colpo di grazia? Chi le costringeva, se non un regime di terrore?

Il sospetto è che non fossero le vere mamme, che si trattasse di una tragica sceneggiata con bambini presi dagli ospedali e messi in braccio a donne che non avevano nessun rapporto con loro. Che fossero i martiri di un grande spot di regime il cui messaggio era: le sanzioni contro il dittatore hanno come unico effetto il crudele sterminio di centinaia di bambini.

E, d’altro canto, come potevamo noi giornalisti non dare conto di una situazione in cui le piccole vittime erano vere, centinaia di morti al mese. A confermare che le cose stessero proprio così, il ministero dell’informazione iracheno offriva la visita nell’ospedale pediatrico Saddam dove i medici raccontavano la disperazione di non avere farmaci per salvare i piccoli pazienti. Per ogni cento bambini, spiegavano, erano disponibili solo tre dosi di Ampicillina al giorno, il più banale degli antibiotici, in grado di fermare le infezioni. Passare in quelle corsie era come attraversare una galleria della disperazione, dalle incubatrici ai lettini, ai letti più grandi, bambini di ogni età condannati a morte. Un impatto emotivo irresistibile, che lasciava in secondo piano anche i dubbi e le argomentazioni di chi spiegava che se cibo e medicine non circolavano in Iraq era perché il rais continuava a dirottare i fondi sulla spesa militare, in sostanza provocando egli stesso la strage degli innocenti. La reazione della stampa era una sola: la richiesta di fare qualcosa per impedire quello strazio.


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