8 agosto 1993.
Sarajevo com’era, in uno dei suoi inverni freddi, quando gli alberi non erano stati ancora tagliati per scaldarsi, cucinare, o solo per sterilizzare un po’ d’acqua, quella sporca e contaminata del fiume Miljacka, l’unica cosa che possa entrare e lasciare la città liberamente, dicono gli abitanti.
Città nata da un serraglio turco del 1.400, Sarajevo, palazzo fra i campi. La spianata chiusa fra i monti, alti fino ai 2067 metri della Bjelasnica, assieme al Monte Igman sede delle Olimpiadi invernali del 1984, monti ora conquistati all’inizio di agosto dai serbi. Postazioni olimpiche diventate posti di vedetta,
Sarajevo dalle tre anime, quella turca con un centinaio di minareti, quella viennese con palazzi e chiese liberty, quella dell’espansione con i quartieri di grattacieli della modernizzazione di Tito. I luoghi di una vita integrata fra le tre etnie rappresentate, si dice, in ogni famiglia di Sarajevo: 44 per cento musulmani, 31 serbi, 17 croati, 526mila abitanti diventati ora meno di 380mila, minareti distrutti, antichi palazzi distrutti, grattacieli sventrati e in fiamme.
La pioggia di granate serbe dai monti ha piegato la gente a vivere alla giornata, come i prigionieri. Il fiorente mercato è diventato mercato nero, l’industria e l’artigianato, riconvertiti per la guerra, producono arti artificiali, armi, strumenti che funzionano a legna anziché con l’elettricità. E l’attività culturale, bruciata anche quella, con i bombardamenti sul centro storico che assieme al palazzo del municipio, hanno distrutto la sede della biblioteca universitaria, un milione e mezzo di libri importanti, testimonianze del pensiero dei popoli della Bosnia Erzegovina: musulmani, serbi, croati, ebrei, italiani.
Su un muro rimasto in piedi, il sogno di capitale cosmopolita di Sarajevo è simboleggiato da Vuchko, il lupetto mascotte delle Olimpiadi dell’84.