Taranto

Le due anime che mi porto dentro

Quei due mari fin da bambino mi sono sembrati una ricchezza. Due mondi, uno aperto, l’altro chiuso: le due anime di Taranto e del suo popolo. Come la Città Vecchia e la Città Nuova, realtà inscindibili, che si alimentano una dell’altra. E il Ponte girevole, la possibilità di unire o di dividere. La sensazione profonda di come tutto possa diventare improvvisamente lontano.

Mia madre mi raccontava della Taranto sotto attacco nella Seconda Guerra Mondiale, con le bombe che cadevano sull’Arsenale, attorno alla casa dove viveva, all’inizio di Corso Umberto. Mio padre, come gli altri giovani, scavava tra le macerie per cercare sopravvissuti, piccoli eroismi, primo di cinque fratelli, anche lui in Corso Umberto, all’angolo con via Mignogna. Le corse nei rifugi, poi sfollati a Francavilla Fontana, l’arrivo degli Alleati. Anni dopo, sotto i missili di Saddam Hussein, alla prima Guerra del Golfo, scoprii che quei racconti mi infondevano coraggio.

Per me ragazzo, invece, era già la città che restituiva la sicurezza, l’identità, la cultura di famiglia. Tornare a Taranto da Napoli per quattro mesi ogni anno, per la lunga estate della scuola di allora, era vivere tra paradiso ambientale (il mostro industriale non c’era ancora) e precetti affettuosamente rigidi dei nonni paterni, l’insegnante Clara Romano da Benevento e il ragioniere Nicola Petrone da Pietrelcina. Significava trovare rifugio dal senso di estraneità, spaesamento e, talvolta, di conflitto che vivevo nella Napoli dov’ero nato. Quello che sotto il Vesuvio si disperdeva, qui sembrava ricomporsi.

Sensazioni rassicuranti fin dai primissimi ricordi legati al mare. Come la spiaggia di San Vito, Praia a mare, dove “si toccava” per decine di metri dalla riva, nella morbida sabbia. Perciò i genitori ci lasciavano giocare da soli in acqua per ore: fu anche la prima conquista di indipendenza e di libertà…vigilata, ovviamente. Libertà che nell’adolescenza si trasformò in primi slanci d’amore, sempre tra spiagge e pinete, Gandoli, Lido Silvana, Castellaneta Marina.

Fu protettiva anche la Villa Peripato, Sempre in bicicletta e pattini nella rotonda che sembrava sconfinata, teatro all’aperto. Prima solo i cigni, poi anche i pavoni da ammirare. E le statue di Archita e di Pitagora di cui mamme e zie ogni volta spiegavano vita, morte e miracoli, mentre ci portavano a spasso nei viali coperti di brecciolino bianco. Lezioni deambulando, secondo gli insegnamenti dei peripatetici, appunto, in cui si ricostruiva con orgoglio l’identità di una grandezza passata. La si rappresentava come un affascinante destino da perseguire.

Insomma, mentre negli anni Sessanta e Settanta la città industriale cresceva a dismisura, la Taranto illuminata non smetteva di nutrire la propria memoria di civiltà della Magna Grecia che lo stesso Archita aveva realizzato nel Quarto secolo prima di Cristo. E che proprio il liceo classico a lui intitolato si era impegnato dalla seconda metà dell’Ottocento a rigenerare. Senza vanaglorie o sbandieramenti inutili, con lo stile asciutto e concreto che contraddistingue molti tarantini, quasi un retaggio dei coloni spartani che erano stati all’origine di questa città.

Doveva essere questo spirito ad animare anche mia nonna materna, Galatea Scialpi, insegnante di lettere sposata con il direttore didattico Angelo Jurlaro (iniziale greca poi cambiata in “I” dalle leggi fasciste). Quando un ufficiale dell’Esercito britannico durante l’occupazione le si rivolse in inglese, Galatea rispose pronta in latino, lingua che parlava in modo fluente come anche il greco antico. Era stata una delle prime tre donne che a inizio secolo aveva frequentato un liceo, l’Archita appunto. Per la cronaca, il colonnello inglese fu in grado di tenerle testa avendo studiato latino ad Oxford. Gli si illuminarono gli occhi e il dialogo proseguì a lungo.

Su questo particolare modo d’essere dei tarantini, su questa cultura che per me personalmente ha fatto la differenza perfino rispetto al grande patrimonio di Napoli, a mio avviso non si è riflettuto abbastanza. Altro che “molle Tarentum”! Fin da bambino ho imparato che qui, nonostante i quaranta e più gradi estivi, lo scirocco che bagna le strade e l’asfalto che si scioglie, le cose bisogna dimostrare di saperle fare davvero, E, in cambio c’è una forma di rispetto e di ossequio sociale per chi dimostra capacità. Anche in questo caso, senza ostentazioni, con naturalezza, come guidati da un senso intimo e profondo del dovere da compiere, del far bene. Un modo che per altro verso si traduce in spiccato ossequio per l’autorità e il potere. Retaggio maturato in decenni di dominio pervasivo della Marina Militare, in forza della ragion di stato, della necessità di controllo totale sul porto strategico per la difesa della nostra flotta da guerra che tra Mar Piccolo, Mar Grande e Ponte Girevole che li unisce è il cuore della città stessa.

Tra l’esempio della Magna Grecia e l’asciutto senso pratico della Marina, Taranto sembra educare al pragmatismo e al rispetto per chi dà conto di sé. Fin dalle bravate giovanili, ho percepito sempre un’istanza alla responsabilità personale che mi veniva dalla comunità di appartenenza. Un punto di riferimento, un faro che ho trovato sempre presente sia nei tarantini che decidono di restare, “attaccati come cozze” alla città, sia nei tanti che conquistano posizioni di prestigio emigrando. Come se lo spirito della città intimasse a ognuno di noi di comportarci seriamente. Come se con affettuosa severità ci suggerisse di non fare “stutecarie”.


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